Cristoforo da Messimburgo camminava a grandi falcate nella cucina verniciata di fresco, le mani dietro la schiena, il mento alto e fiero, lo sguardo ad accarezzare pentole, cucchiai, bracieri, griglie, piani di marmo, piatti, vassoi, posate. Ogni oggetto era nuovo e luccicante, ogni angolo di quella immensa splendida cucina sembrava sussurargli parole dolci, parole d’amore.
Pensate a Cracco, Bastianich e Cannavacciuolo e trasportateli indietro di 500 anni. Immaginateli in una cucina di legno e marmo, dove odori, sapori, ingredienti e combinazioni di cibi sono molto distanti da quello che solitamente mangiate. Pensate a un cuoco, Cristoforo da Messimburgo, che è una star alla pari dei suoi eredi contemporanei, i cui committenti non sono network e canali televisivi, ma Ercole e Sigismondo d’Este. Pensate a questo cuoco non come a un grande manipolatore di materie prime, ma a un artista, non dissimile da Ludovico Ariosto. Poi pensate a una città straordinaria, Ferrara, dove cibo, cultura e arte sono gli strumenti per la fama. Una fama che attira invidie e appetiti, così come le portate di Messimburgo.
Un romanzo interessante, che a mio avviso fa bene a strizzare l’occhio all’oggi e ai nostri tempi, e che, pur con qualche errore, riesce a ricreare una trama verosimile e originale rispetto alle trame spesso ripetitive di questi anni.
Nessuno avrebbe dimenticato il banchetto di quello speciale giorno di dicembre del 1502
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